Papa Francesco è morto, aveva 88 anni. L’annuncio del cardinale Farrell: «Alle 7.35 è tornato alla casa del Padre»

di Gian Guido Vecchi

Il Pontefice si trovava a Roma, a Casa Santa Marta, dove era stato trasferito dopo il ricovero al Gemelli. Aveva 88 anni

Papa Francesco è morto oggi, lunedì 21 aprile. Il Pontefice si trovava a Roma, a Casa Santa Marta, dove era stato trasferito dopo il ricovero al Gemelli. A dare la notizia il cardinale Farrell: «Alle 7.35 il Vescovo di Roma è tornato alla casa del Padre»

CITTÀ DEL VATICANO Isola di Sanciano, 3 dicembre 1552, poco dopo mezzanotte: in una capanna, vegliato da un amico cinese, Francesco Saverio, primo missionario gesuita, muore guardando la Cina, il sogno di una vita distante un paio di miglia marine. Roma, 31 luglio 2013, Chiesa del Gesù: sono passati poco più di quattro mesi da quando il conclave, il 13 marzo, ha eletto l’argentino Jorge Mario Bergoglio e Francesco, primo Papa gesuita della storia, celebra messa nella «chiesa madre» della Compagnia il giorno della festa del fondatore, sant’Ignazio di Loyola. «A me è sempre piaciuto pensare al tramonto del gesuita, quando un gesuita finisce la sua vita, quando tramonta», dice nell’omelia. E cita l’immagine di padre Francesco Saverio che muore guardando la Cina: «L’arte lo ha dipinto tante volte questo tramonto, questo finale di Saverio. Anche la letteratura, in quel bel pezzo di Pemán. Alla fine, senza niente, ma davanti al Signore. A me fa bene, pensare questo».           

           Le reazioni dal mondo alla morte di papa Francesco

Il tramonto di Francesco, dopo 88 anni di vita e quasi dodici di pontificato, porta con sé la sensazione di qualcosa di irreversibile, la «rivoluzione della tenerezza» innescata dalla rinuncia di Benedetto XVI e compiuta da quel prete «callejero», di strada, figlio di emigrati piemontesi – il papà Mario ragioniere, impiegato nelle ferrovie, la madre Regina Sivori casalinga impegnata a tirar su cinque figli – cresciuto al 531 di calle Membrillar, nel barrio Flores di Buenos Aires, quartiere di italiani dove Alfredo Di Stefano, un signore del quale Pelè diceva «per me il più forte è stato lui», ricordava di averlo visto giocare a pallone con gli altri ragazzini. Il diploma da perito chimico, la vocazione, il seminario, e a ventun anni il noviziato della Compagnia a Cordoba, a settecento chilometri da Buenos Aires, accompagnato in bus dai genitori: anni difficili, perché dai gesuiti studiano molti figli di famiglie bene, ricche, e lui ne ricaverà un senso di solitudine e il risentimento per quella mentalità elitaria che definirà la «psicologia da principi».

Così all’inizio c’è già tutto. I confratelli cardinali, nella Sistina, sanno bene chi stanno votando. Bergoglio era già stato il nome dei «progressisti» nel conclave del 2005 che aveva eletto Ratzinger. Ma l’atmosfera cupa e asfittica che ha accompagnato lo scandalo Vatileaks, la necessità di una scossa che Benedetto XVI avverte per primo, decidendo di dimettersi, portano uno dei conclavi sulla carta più conservatori – gli elettori sono stati nominati quasi tutti da Wojtyla e Ratzinger – a scegliere quel cardinale che a Buenos Aires raggiungeva in bus i sobborghi della villas miserias, le famiglie di baraccati talvolta non sapevano che quel prete fosse l’arcivescovo. 

Nelle riunioni dei cardinali prima del conclave, il 9 marzo, l’intervento del gesuita argentino già contiene il programma del pontificato: «La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo geografiche ma anche esistenziali», dice. La Chiesa aperta: «A volte penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire». Accetta l’elezione come un «peccatore » che confida «nella misericordia» di Dio, e lascia tutti senza fiato quando dice: «Vocabor Franciscus», mi chiamerò Francesco. Mai nessun pontefice aveva scelto il nome del santo di Assisi. «Non dimenticarti dei poveri», gli aveva detto il francescano Hummes, che gli sedeva accanto. Quattro giorni più tardi sarà lo stesso Papa, l’indice al petto, a raccontare: «Quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri… Ho pensato subito a Francesco d’Assisi. Poi ho pensato alle guerre, e Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore… Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!».

La veste bianca, l’uscita dalla Sistina. Prova subito a chiamare Benedetto XVI ma a Castel Gandolfo non sentono la telefonata, si parleranno alle 20,45, ma intanto anche Ratzinger scopre come tutto il mondo il nuovo Papa che s’affaccia che dalla Loggia delle Benedizioni, «Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo, ma siamo qui».

Non era una battuta. È l’idea che fonda il suo magistero, quello che lui stesso ha definito «lo sguardo di Magellano», il grande navigatore portoghese che all’inizio del Cinquecento si propone di circumnavigare il globo e «quando arriva arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa», perché «la realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro». 

Così il Papa arrivato «quasi dalla fine del mondo» rovescia le prospettive, a cominciare dalla stessa figura papale. Resta a vivere nella camera 201 a Santa Marta, l’albergo vaticano che ospitava gli elettori, perché «non posso vivere da solo», e così cancella l’immagine da corte imperiale con pochi eletti ammessi all’Appartamento apostolico che gli pare «un imbuto rovesciato». Dopo una delle prime notti, all’alba vede una giovane guardia svizzera fuori dalla porta, «sei stato in piedi tutta la notte, figlio?», lo fa sedere e gli offre la colazione. Allergico al «si è sempre fatto così», spiega che «all’inizio sono caduti alcuni muri: “Il Papa non può!”» e va di persona nei negozi a cambiare occhiali o scarpe, si porta da sé il bagaglio a mano, si stupisce dello stupore, «dobbiamo cercare di essere normali, la normalità della vita».

E poi, i viaggi, cuore del suo magistero. Da una parte ci sono le grandi sfide: il dialogo con la Cina e l’ «accordo provvisorio» sottoscritto dal 2018 per la nomina dei vescovi; l’amicizia con l’Islam e il «Documento sulla fratellanza umana» firmato nel 2019 a Dubai con il Grande imam di Al Azhar Ahmad Al-Tayyeb, massima autorità sunnita; il viaggio in Iraq del 2021, primo Papa nella terra di Abramo, e l’incontro con il grande ayatollah Ali Al-Sistani, leader sciita; l’avvicinamento col mondo ortodosso e il primo, storico incontro tra un Papa e il patriarca di Mosca, Kirill, il 12 febbraio 2016. 

Dall’altra, le periferie. Francesco dà voce e visibilità agli ultimi della Terra, gli «scartati», come un faro proiettato, almeno per qualche giorno, sulle vicende di popoli che non interessano a nessuno, oscurati dalla comunicazione globale. Bisognava vederlo, in Bangladesh, mentre chiedeva «scusa» a nome di tutto il mondo ai Rohingya, alla donna musulmana che gli diceva piangendo: «Vorrei mostrare il mio dolore al capo dei cristiani» . O tra i Mapuche e gli indios dell’Amazzonia: «Dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture superiori o inferiori». Il primo viaggio lo compie a sorpresa tra i migranti a Lampedusa, al centro del Mediterraneo divenuto «un grande cimitero», per denunciare la «globalizzazione dell’indifferenza» e i troppi «muri» destinati a crollare, come ripeterà a Lesbo, Cipro, Malta, «i ponti sono sempre soluzioni, i muri mai».

Nella sua terza enciclica, Fratelli tutti , aveva scelto un verso di Virgilio, «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt», per dire con Enea il dolore delle cose e delle vicende umane che toccano la mente e il cuore. Perché è «la realtà stessa che geme e si ribella», in un mondo nel quale in un mondo nel quale «tutto è connesso»: la devastazione dell’ambiente, l’iniquità dell’economia e la «cultura dello scarto» a danno degli ultimi, la tragedia delle migrazioni e la «terza guerra mondiale combattuta a pezzi».

Certo, ci sono le riforme «strutturali» avviate o compiute, dalle finanze vaticane alla Curia romana, un impulso al decentramento della Chiesa che si riflette nella centralità del Sinodo dei vescovi mondiali sulle questioni più delicate e nella nomina di un «Consiglio» del Papa composto da un gruppo di cardinali da tutti continenti, le nomine cardinalizie che premiano piccole realtà periferiche a scapito delle sedi storiche, un conclave sempre meno eurocentrico e occidentale e sempre più rappresentativo del Sud del mondo. 

Ma l’aspetto centrale resta il ritorno all’essenziale del cristianesimo, «le Beatitudini e il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, li c’è tutto», l’atteggiamento che nel giorno del Giudizio distinguerà i giusti dai dannati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Il kerygma, il Vangelo sine glossa, in purezza. Di ritorno dal primo viaggio internazionale, la Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro, i giornalisti in volo gli chiedono se in Vaticano esista la «lobby gay» di cui si era parlato, e lui spiega tranquillo: «Si deve distinguere il fatto che una persona sia gay dal fatto di fare una lobby. Se è lobby, tutte le lobby non sono buone. Ma se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicare?».

Tutto questo senza peraltro cedere nulla sulle prerogative del Papa, com’è peraltro ovvio per un gesuita, un pontefice talvolta brusco con i collaboratori e, nel caso, duro: prosegue la «tolleranza zero» di Ratzinger sulla pedofilia e arriva a togliere la porpora all’ex cardinale di Washington, Theodore McCarrick (l’unico precedente risaliva al 1927), così come toglie «le prerogative del cardinalato» al cardinale Angelo Becciu perché sia processato per lo scandalo degli investimenti finanziari della Segreteria di Stato.

Di nemici ne ha tanti, soprattutto nella destra cattolica degli Stati Uniti e nelle frange più reazionarie che cercano di contrapporlo a Benedetto XVI, ma Francesco liquida i timori di uno scisma («ce ne sono stati tanti, nella storia della Chiesa») e non replica: «Con le persone che cercano solo divisione scandalo, l’unica risposta è il silenzio di Gesù. Con Satana non si dialoga».

Dietro la semplicità apparente, i riferimenti di Francesco sono sottili, nascosti. Nel greco dei Vangeli, il verbo che indica la compassione di Gesù è splanchnízomai e viene da splánchna , l’«utero» o le «viscere» della madre. Toccare le ferite, il dolore. Le viscere materne della misericordia. Il 18 gennaio 2015 celebra a Manila una messa davanti a sei milioni persone, «il più grande avvenimento nella storia dei papi», fa notare padre Lombardi. Ma nella memoria resta il volo nelle tempesta verso Tacoblan, un’isola devastata dal tifone Yolanda, la messa sotto la pioggia davanti ai sopravvissuti, e Francesco che guarda i volti in lacrime di chi ha perso tutto, figli, amori, case, soppesa l’omelia già scritta, lascia perdere i fogli: «Io non so che cosa dirvi. Il Signore sì, sa che cosa dirvi», e dice, a braccio, una delle omelie più belle del pontificato.

Raccontava che il primo annuncio cristiano lo aveva ricevuto da una donna, Rosa, la nonna paterna, e per questo amava la poesia che Friedrich Hölderlin aveva dedicato alla sua, ne sillabava i versi, «che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso». Francesco lo ha mantenuto. E pazienza se anche lui, tramontando, non è riuscito ad andare in Cina. Dopo la morte di Francesco Saverio, fu il missionario gesuita Matteo Ricci a compiere il sogno del confratello, il 7 agosto 1582, sbarcando trentenne da un galeone portoghese nella colonia di Macao. Perché «il tempo è superiore allo spazio» e l’essenziale è «aprire processi». Il resto verrà: «Dio ci “primerea”, ci anticipa, sempre».

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